18 novembre 2022: centenario della morte di Marcel Proust
“(…) E all’improvviso il ricordo mi è apparso. Quel gusto era quello del pezzetto di madeleine che zia Lèonie la domenica mattina a Combray mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio quando andavo a darle il buongiorno in camera sua. La vista della piccola madeleine non mi aveva ricordato niente prima di averla gustata (…) forse perché non sopravviveva nulla di quei ricordi abbandonati così a lungo fuori della memoria. (…) Ma, quando in un antico passato non sussiste niente, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più intensi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore restano ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a reggere, senza piegarsi, sulla loro gocciolina quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo.”
da “Dalla parte di Swann” vol. I de “La ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust
Avvicinarsi all’opera di Proust non è impresa scontata. Ricordo di averlo studiato a più riprese ma di non aver mai letto nulla che non fosse didattico o strettamente storico letterario. Fino a quel giorno in cui, tra i libri di mio padre, ho scorto il primo volume de La Ricerca del Tempo perduto, Dalla parte di Swann. Ho esitato. Ricordo di essermi seduta a terra, ai piedi della libreria, e di essermi incantata. Ho sfogliato il vecchio testo dal lieve odore di pagine ammuffite e non ne sono più uscita.
Un vero viaggio. La narrazione di un’epoca che diventa prototipo delle piccolezze e delle banalità dell’uomo perso in sé stesso. Mi sono sentita trascinata come dentro un film. Ho iniziato la lettura e ancora oggi sento le sensazioni che ho provato in compagnia di quelle pagine straordinarie. Non penso alla loro bellezza linguistica o letteraria, sarebbe fin troppo scontato e al contempo ambizioso. Penso a quelle sensazioni che mi hanno attraversata e si sono fissate dentro di me, quelle che solo la grande letteratura è in grado di lasciare. Penso a quel senso di universale che attraversa le grandi pagine mentre parla ad ognuno di noi e di ognuno di noi, che diventa forma d’arte capace di stimolare la ricerca di sé stessi.
E poi la descrizione di quel profumo. Il profumo del tempo perduto. Proust ce lo fa rivivere come in un’immagine scolorita, un’istantanea che immortala momenti intimi, fragili e poi potentissimi, incisi nella nostra memoria involontaria e per sempre nostri. Chi non ha di questi ricordi da ripescare come luccicanze nei momenti di vuoto? Chi, mosso involontariamente da un senso, non è mai stato catapultato nel passato, nella narrazione di un tempo e di una memoria che danno senso alla gettatezza dell’uomo nel mondo.
È la memoria ciò che ci consente di cogliere i cambiamenti, le trasformazioni che le persone e le cose subiscono nel tempo e che ci permette di conservarne l’identità originaria. La forza del ricordo che si materializza improvvisamente in momenti impensati, ci consola, allevia l’angoscia, ci riporta alla verità di noi stessi. Una Madelaine diventa allora capace di abbattere il tempo e lo spazio, di fondere passato e presente e poi farci eterni.
“E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua casa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente mortale. Da dove era potuto giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda. È tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. È chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. È stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione (e proprio ora), per uno schiarimento decisivo.”
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