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“La bellezza delle cose fragili” Di Taiye Selasi

09/02/2022

“Fissa le cose che brillano, catturato da quella bellezza, e sa quello che già sapeva tanti inverni fa: quando ci si trova davanti a qualcosa di fragile e perfetto in un mondo che è brutto, terribile e crudele, conviene non dare nomi. Meglio fingere che la cosa non esista. Solo che non funziona, perché la perfezione esiste, si ostina esistere nelle cose più vulnerabili.”

 

“La bellezza delle cose fragili” è il titolo dell’edizione italiana del libro d’esordio di Taiye Selasi. Magistrale nella sua struttura complessa, dallo stile concentrato e introspettivo; di non semplice lettura ma di intensità travolgente. È la storia di una famiglia fragile, come lo sono tutte le famiglie quando sottoposte alle severità della vita. Così fragile da non resistere all’urto del trauma inferto da uno dei suoi componenti: il trauma dell’abbandono. Frangile come un cristallo la famiglia si spacca in sei frammenti che per un lungo periodo si disperdono per le loro altrettanto fragili e solitarie strade.

 

“Lui disse semplicemente che gli dispiaceva, ma aveva deciso di andarsene via da casa. E se lei avesse venduto la casa per il suo giusto valore, avrebbe avuto quanto le bastava per rifarsi una vita. Disse che molto probabilmente in realtà non era mai stato degno di lei. Che lui aveva annientato la loro esistenza per l’ostinazione di vincere una scommessa impossibile. Disse di aver preso la decisione più giusta e le chiese scusa di nuovo, disse che lei sarebbe stata meglio senza di lui. “Ma cosa significa?” Un bacio fortissimo ai ragazzi, “Quando torni a casa?” gli disse lei piangendo. Non sarebbe tornato.”

 

I protagonisti sono figli del mondo – sia per identità sia per vicende – e condensano nelle loro sfaccettature un’intera umanità. La piega che prendono le loro singole vite sottolinea l’unicità dell’esperienza soggettiva. La Telasi regala ad ognuno di loro, con cura e dovizia di particolari, un mondo emotivo esclusivo consentendo loro di costruire la propria narrazione dei fatti e la propria storia di vita.

 

“Tristezza, tensione, assenza, angoscia, ma stanno tutti bene come quando li ha messi al mondo. Vivi, anche se non al meglio nel mondo, pesci nell’acqua, nella condizione in cui li ha dati alla luce. Respirano e lottano e questo basta. Forse è così per tutte le madri, pensa Fola, che pregano perché i loro figli possano avere successo e diventare famosi e vivere storie d’amore, la favola da essere felici. Ma per lei questo basta, per lei che sarebbe disposta a uccidere e a morire per ognuno dei suoi figli, pur consapevole che la disponibilità a morire ha i suoi limiti e che la morte è indifferente…”

 

È una storia sull’amore, sulla perdita, sulla bellezza; sui legami e tutte le loro difficoltà; sulle parole non dette che svuotano e fanno sentire soli; sull’ identità la sua ricerca e la sua mancanza, sull’importanza di sentirsi parte di qualcosa, che sia una famiglia, un popolo, un paese.

 

“Intransigentemente aborigeni: così lui definisce questo tipo di lineamenti. La specificità di un popolo con dei geni particolarmente forti oppure il prodotto di un processo di raffinamento e rinforzo dopo secoli e secoli di riproduzione di massa. […] Che quella faccia continua a ripetersi, quell’unica faccia più e più volte, nonostante gli anni, gli oceani, gli amanti e le guerre, come la matrice di un incisore, una matrice di ottima fattura, che vale la pena di riutilizzare, ecco tutto questo è una cosa che riempie di meraviglia. I suoi fratelli e i loro genitori appartengono ad un Popolo, recano lo stampo di un’appartenenza. Lui e Taiwo no, i loro lineamenti sono una testimonianza, sì, ma non di un popolo. Sono la storia dell’arte, dell’assenza di un popolo. Sono una storia minore, più breve, disordinatissima. Una storia di persone con la p minuscola.

 

E poi il ricongiungimento. In un disegno quasi circolare si torna all’inizio. Ci si ricongiunge. La vita trova la strada per perdonare, ricomporre, accogliere, integrare. Qualcuno non c’è più fisicamente ma funziona da collante, da radice e origine. Ognuno riesce a dare senso alla propria storia e al proprio sé come fosse “kinsugi”: una frattura saldata e messa in evidenza con l’oro. E prende forma la bellezza.

 

“Abbiamo fatto quello che sapevamo fare. Era quello che sapevamo. Andare via. […] Eravamo immigrati. Gli immigrati partono, vanno via. […] Siamo stati anche amanti. […] Non si può imparare più di tanto in una sola vita. […] Noi abbiamo imparato ad amare. Lascia che loro imparino a rimanere. […] Ho avuto quello che volevo. Tu li hai fatti tornare tutti a casa.”

 

 

 

 

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