Essere Uomini
di Gaia Miglietti
Esser-ci
Il modo in cui noi uomini siamo sulla terra è il Buan, l’abitare. Essere uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè, abitare […], l’abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell’abitare risiede l’essere dell’uomo, inteso come il soggiorno dei mortali sulla terra.
HEIDDEGER, Costruire, Abitare, Pensare
“Io sono un uomo” è, perciò, l’unica risposta possibile del nuovo nato.
A. PAPA, Nati per incominciare
La globalizzazione e il progresso tecnologico, protagonisti del XXI secolo, hanno stravolto gli equilibri originari della Terra. L’uomo, già da tempo resosi indipendente dalla Natura, l’ha prevaricata nel nome della dimenticanza delle proprie radici. Ma cosa significa per l’uomo rinnegare la terra se non cadere nell’oblio della non-appartenenza? Ecco, dunque frustrazione, paura, inquietudine esistenziale non solo come sentimenti innati nella fragilità umana, ma anche come segnali della perdita di radicamento, della perdita assoluta di senso.
Martin Heidegger ha definito l’uomo sulla base della sua originaria appartenenza al mondo: un Esser-ci gettato sulla terra in quanto esistente e come tale situato tra le cose e gli altri. Ognuno ha la possibilità di appropriarsi di sé e fare dell’Esserci un ente che ha in sé stesso la ragione della propria esistenza. Ognuno ha la possibilità di decidere se vivere in modo autentico o inautentico. Il poter-essere caratterizza dunque l’Esserci heideggeriano, in quanto condizione innata del proiettarsi in avanti attraverso progetti: <<ognuno è a seconda di come ha saputo comprendere sé stesso, le sue possibilità>>. L’essere-nel-mondo è l’altra condizione dell’essere che lo situa tra le cose e gli altri in un atteggiamento di Cura, condizione originaria dell’Essere che gli rende possibile il prendersi cura di qualcosa – essere-per – e l’avere cura degli altri – essere-con.
Hannah Arendt condivide con Heidegger il concetto di essere-nel-mondo, allontanandosene nel suo sviluppo e orientandosi verso un pensiero che è elogio alla vita: l’essere-per-la-vita. Se Heidegger intende il vivere autentico come consapevolezza della morte in quanto possibilità più propria e certa di ogni essere umano – <<La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è. “L’uomo appena nato è già abbastanza vecchio per morire”>> – (essere-per-la-morte), Arendt, di contro, sostiene l’appartenenza alla terra: non si nasce per morire, ma per incominciare.
Il concetto di natality <<rimanda sia all’idea di fertilità, che all’idea di ecumene, ovvero di mondo abitato e, non ultimo, anche al latino natalis, a sottolineare che si nasce non già perché vocati alla morte, bensì perché vocati alla vita>>. Il riferimento all’ecumene è chiarito in quelle che la filosofa individua come le tre attività umane fondamentali: lavorare, operare e agire. Ciascuna di esse corrisponde alle condizioni esistenziali in cui l’uomo vive sulla terra, ossia: vita, essere-nel-mondo e pluralità. <<L’uomo nasce tra gli uomini e fa esperienza della morte tra gli uomini, poiché l’unica condizione umana possibile in ambito politico è l’essere-tra-gli-altri>>.
Nel fatto decisivo della natalità, le posizioni del lavorare, dell’operare e dell’agire trovano significato e senso, poiché la loro funzione attiva è quella di prendersi cura del mondo, difenderlo, ma anzitutto attrezzarlo per accogliere i nuovi nati, i neoi, che compaiono al mondo come stranieri.
Ci si prende cura del mondo non abbandonandolo, ma abitandolo con consapevolezza. Diventando un qualcuno capace di vivere nel mondo in relazione con altri chi; assumendo scelte e decisioni collettive, dirigendo le proprie azioni in senso comunitario <<senza mai sottrarsi alla responsabilità dell’essere di fronte a tutti […] Oppure disobbedire se necessario>>.
Quel che è certo è che per quanto sia impossibile spiegare Chi siamo o Cosa siamo […] risultiamo indiscutibilmente condizionati alla terra, a lei legati in virtù della nostra nascita. Ma a questo legame di dipendenza, peculiare della nostra condizione umana, tentiamo di ribellarci, affidandoci anzitutto ai trionfi della scienza moderna, la quale ha storto lo sguardo umano conducendoci anche fisicamente fuori dalla terra, fuori dal materno originario, fuori dall’uomo stesso.
Gaia Miglietti
Dottoressa in Interpretariato e Comunicazione con una tesi in Filosofia della Globalizzazione
Specializzata in inglese e arabo presso Iulm di Milano.
Traduttrice freelance.
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