In questi giorni di commemorazioni si è molto parlato di memoria, ci si è interrogati su che cosa sia, a chi appartenga e come si possa infondere al suo concetto nuova energia come esperienza quotidiana. Proprio in questi giorni rileggevo “Gli anni” di Annie Ernaux, premio Nobel per la letteratura 2022, consegnatole “per il coraggio e l’acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale”. Non si tratta di un romanzo nel senso comune del termine, è stato infatti definito un’autobiografia impersonale nella quale l’esistenza dell’autrice si muove nel flusso collettivo e nella Storia della Francia.
“La memoria non si ferma mai. Appaia i morti ai vivi, gli esseri reali a quelli immaginati, il sogno alla storia”.
Negli anni la memoria è un’opera di tessitura tra generazioni, è un tempo e uno spazio di condivisione e di narrazione di esperienze che, raccolte e custodite, diventano testimonianza. Per dirla con le parole della filosofa Adriana Cavarero “ogni essere umano è un essere unico, è un esistente irripetibile che […] non ricalca mai le medesime orme di un altro, non ripete mai il medesimo percorso, non si lascia mai dietro la medesima storia” (Tu che mi guardi, tu che mi racconti, 1997) ed è per questo che nella narrazione la testimonianza assume un valore imprescindibile.
Scrive Hannah Arendt: “la storia rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi”. In questo romanzo le vicende personali diventano emblematiche di quelle di un’intera epoca, ma l’esperienza individuale, incarnandosi in un percorso di costruzione di significato collettivo, si trasforma in Storia sempre attualizzata. Alla scrittura e alla fotografia Ernaux affida il compito di “salvare qualcosa del tempo in cui non saremo più”, di lasciare un’impronta che liberi dalla paura del nulla perché nonostante le delusioni e i ripianti la vita è “una rivincita contro la morte e quel nulla in cui precipitano tutte le cose” e per questo è degna di essere vissuta.
“Era la memoria degli altri a collocarti nel mondo. Al di fuori delle narrazioni, i modi di camminare, di sedersi, di parlare e di ridere, di chiamare qualcuno […] trasmettevano la memoria passata di corpo in corpo. Un’eredità inavvertibile nelle fotografie che però, al di là delle differenze individuali […] univa i membri della famiglia, gli abitanti del quartiere e tutti colori di cui si diceva quella gente è come noi. Un repertorio di abitudini, una somma di gesti modellati dalle infanzie […] precedute da altre infanzie, retrocedendo fino all’oblio…”
Lascia un commento