Da un amico…
Ricordo esattamente il momento in cui imparai a leggere.
Al mare, in un luogo imprecisato, una serata di un luglio afoso, intristito dal fatto che il mio compleanno cadesse sempre mentre ero in vacanza, lontano dai miei amici.
Sapevo riconoscere la singole lettere, la A, la Elle, la Zeta, ma non riuscivo a collegarle tra loro.
Fino alle otto di quella sera di tanti anni fa, quando sul grande televisore in bianco e nero posto in alto, nella grande sala dell’albergo, apparve la sigla del TG.
C’era un’antenna che aveva sullo sfondo il mondo e, lettera dopo lettera, apparve la sigla ed io riuscii a collegare le singole lettere in una parola di senso compiuto:
T-E-L-E-G-I-O-R-N-A-L-E.
Un imprinting indelebile nella mia memoria.
Non ricordo quanti anni avessi, ma certamente non avevo ancora iniziato la scuola.
E da allora non ho più smesso di leggere.
Il ricordo che ora mi fa sorridere è che più avanti, non riuscendo a tenere in mano il quotidiano che comprava abitualmente mio padre, lo mettevo a terra per sfogliarlo e poterlo leggere sedendomi o sdraiandomi sul pavimento.
Mi sembrava di non capire niente di politica, ma c’erano le Olimpiadi a Roma, i lanci dei missili nello Spazio e gli articoli sul mostro di Loch Ness che tanto stimolavano la mia fantasia.
A questo punto, credo di aver letto migliaia di libri, di qualsiasi genere.
In molti ho riconosciuto parti della mia anima, o ne ho scoperte di nuove. In altri ho appreso culture e tecniche, sempre funzionali a una migliore consapevolezza di me stesso.
Alcuni li ho letti solo per superare esami, altri per stemperare la tensione o evadere da momenti di vita eccessivamente stressanti. Alcuni mi hanno fatto ammalare, altri guarire.
Fino a diventare io stesso un libro, dalle molte caleidoscopiche pagine.
Una specie di Ulisse di Joyce, il mio libro preferito, che puoi aprire in qualsiasi punto e poi lasciarti trascinare dalla musicalità delle parole perché è forse lì che riesci a coglierne il senso più profondo, che non può essere meramente concettuale.
Con gratitudine, F.
Primo Levi
“Ho letto molto perché appartenevo a una famiglia in cui leggere era un vizio innocente e tradizionale, un’abitudine gratificante, una ginnastica mentale, un modo obbligatorio e compulsivo di riempire i vuoti di tempo, e una sorta di fata morgana nella direzione della sapienza. (…) Mio padre aveva due fratelli altrettanto avidi di letture indiscriminate; i tre, (un ingegnere, un medico, un agente di borsa) si volevano molto bene; ma si rubavano a vicenda i i libri dalle rispettive librerie in tutte le occasioni possibili. I furti venivano recriminati pro forma, ma di fatto accettati sportivamente, come se ci fosse una regola non scritta secondo cui chi desidera veramente un libro è ipso facto degno di portarselo via e di possederlo. Perciò ho trascorso la giovinezza in un ambiente saturo di carta stampata.”
Fernanda Pivano, Introduzione a “Libero chi legge”
E’ stato mio padre a insegnarmi l’amore per i libri. Ero poco più di una bambina ma ogni sabato pomeriggio mi accompagnava nella sua preziosa biblioteca di diecimila volumi e con una piccola cerimonia di un quarto d’ora ne sceglieva uno tra quelli di Fedor Dostoevskij, Lev Tolstoj e Anton Cechov, Gustave Flaubert e Guy de Maupassant, Thomas Mann e Alfred Doblin, Ljos Zilahy e Ferenc Kormendi (alla moda in quel momento), o della prosa d’arte italiana come per esempio America amara di Emilio Cecchi. Mi spiegava che cos’era e mi chiedeva cosa ne pensavo del libro che mi aveva dato il sabato prima.
Mi faceva leggere anche una minuscola rivista arrivata nelle sue mani per le vie dell’antifascismo, “La cultura”, di cui aveva conservato le copie dei primi anni Trenta e dove Cesare Pavese aveva scritto articoli su Sherwood Anderson e John Don Passos, e soprattutto Edgar Lee Master: articoli che, in quel clima di “autarchia culturale”, mi avevano aiutato a respingere il “principio di italianità” e a rivolgermi alla “plutocrazia decadente” e alla “democrazia giudaico-massonica” quali venivano definite le civiltà anglosassoni.
E’ stato ancora lui a regalarmi la prima copia di Moby Dick, tradotto da Cesare Pavese nel 1932 e pubblicato dall’antica Frassinelli, gloria dell’editoria antifascista torinese.
Quello stesso Cesare Pavese sarebbe stato il mio supplente di italiano al liceo Massimo D’Azeglio di Torino. Nelle sue lezioni ci parlava di Francesco De Sanctis e Benedetto Croce; un giorno sono tornata a casa e ho chiesto a mio padre, che si faceva chiamare babbo, se conosceva questi autori. E lui, senza dire niente, mi ha accompagnato nella sua biblioteca e mi ha fatto vedere i loro libri. Avreste dovuto vedere la faccia di quell’insolito professor Pavese quando il giorno dopo li ho portati in aula.
Pavese l’ho rivisto nel 1938, dopo il suo confino in Calabria. E’ stato lui a farmi capire la differenza tra letteratura europea e letteratura americana, allora sconosciuta in Italia.
Nel 1941 Franklin Delano Roosvelt ha fatto il famoso discorso sulle quattro libertà: libertà di parola, di culto, dal bisogno e dalla paura. La libertà è a tutti i livelli: non avere paura, essere liberi, senza dittature. Questa era la base del sogno americano e della sua letteratura; la letteratura di cui mi sono innamorata. Per me l’America rappresentava la libertà in un periodo in cui la libertà in Italia non c’era.
Infatti poco dopo è scoppiata la guerra, e con la mia famiglia siamo stati costretti a sfollare a Mondovì, in un albergo presidiato dai nazisti. In quella stanza minuscola ho tradotto L’ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper con mia madre che mi aiutava alla macchina da scrivere. Sognavo che Uncas arrivasse a liberarci.
Avevo già tradotto l’Antologia di Spoon River e da allora ho tradotto numerosi altri libri con la speranza di farli conoscere in Italia. Credo che non avrei potuto fare altro perché questa è la mia passione.
Quando la libertà è arrivata anche nel nostro Paese, sono andata in America per cercare uno a uno quegli autori non ancora famosi tra noi, perché per me è fondamentale sapere chi è lo scrittore, chi frequenta, da dove viene: perché ha scritto quello che ha scritto.
Tutti i miei testi sono soltanto lettere d’amore; se scuotono dall’indifferenza qualcuno e lo inducono a interessarsi ad almeno uno dei libri descritti e al loro autore hanno raggiunto il loro scopo.
Oggi, molti, troppi anni dopo, ringrazio tutti gli autori americani che ho amato e dico anche a voi di ringraziarli, uno a uno. Tutte le volte che fate l’amore con un ragazzo che non è vostro marito, o con una ragazza che non è vostra moglie, dite grazie a Ernest Hemingway, a Jack Kerouac, a Gregory Corso. Dite grazie ai miei amici scrittori. E per farlo leggete i loro libri che sostengono la non corruzione, la non paura, la non violenza: che sostengono la libertà.
(2010, Mondadori)
Virginia Woolf da Una stanza tutta per sé
Perciò vi chiedo di scrivere ogni sorta di libri, su qualunque argomento, senza dubitare, per quanto triviale o per quanto vasto vi possa sembrare […]
Dovete scrivere libri di viaggi e di avventure, di scienza e di filologia, di storia e di biografia, di critica e di filosofia e si sociologia. In questo modo ne trarrà vantaggio l’arte del romanzo. I libri, chissà come, s’influenzano i tra di loro. […] d’altronde qualunque grande figura del passato, Saffo, la Murasaki, Emily Bronte, scoprirete che è sempre erede di una tradizione, oltre ad essere l’inizio di una nuova tradizione, e la sua figura letteraria ha potuto esistere perché le donne avevano preso l’abitudine di scrivere con naturalezza […] quando vi chiedo di scrivere più libri via ti incitando a fare qualcosa che contribuirà al vostro bene e al bene del mondo intero.
Jean Paul Sartre
Ho cominciato la mia vita come senza dubbio la terminerò tra i libri. Nell’ufficio di mio nonno ce ne erano dappertutto; era fatto divieto di spolverarli, tranne una volta all’anno, prima della riapertura delle scuole. Non sapevo ancora leggere, ma già le riverivo queste pietre fitte: ritte o inclinate, strette come mattoni sui ripiani della libreria o nobilmente spaziate in viali di menhir, io sentivo che la prosperità della nostra famiglia dipendeva da esse.
Appena un attimo dopo avevo capito: era il libro a parlare. Ne uscivano fuori frasi che mi facevano paura: erano autentici millepiedi, gorgogliavano di sillabe e di lettere, distendevano dittonghi, facevano vibrare le doppie consonanti; melodiose, nasali, intervallate di pause e di sospiri, ricche di parole sconosciute, esser si incantavano di loro stesse e dei loro meandri, senza preoccuparsi di me.
Ma i libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna; la libreria era il mondo chiuso in uno specchio, di uno specchio aveva la profondità infinita, la varietà, l’imprevedibilità.
Nei libri ho incontrato l’universo: assimilato, classificato, etichettato, pensato, temibile anche; e ho confuso il disordine delle mie esperienze libresche con il corso casuale degli avvenimenti reali.
Carlos Ruiz Zafón, L’ombra del vento
«Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo
spirito acquista forza. Molti anni fa, quando mio padre mi portò qui per la prima volta, questo luogo era già vecchio, quasi come la città. Nessuno sa con certezza da quanto tempo esista o chi l’abbia creato. Ti posso solo ripetere quello che mi disse mio padre: quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro viene cancellato dall’oblio, noi, i custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di
qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel. Pensi di poter mantenere il segreto?»