Avevo sempre sospettato che i nostri giorni
fossero solo foglie: mite il loro fruscio
come nel vento, quello della siepe
dietro la nostra capanna, o nel canneto
sull’orlo dello stagno. Ed anche in me
avvertivo un tremore come di foglia
vibrante appena sul tenue picciuolo,
quando tu ritornavi, Amore mio,
dal nostro povero orticello, recandone
i pochi frutti, nostro sostentamento,
nella tua cura assidua maturati
sul ritmo delle calme stagioni: lo spuntare
tenero a primavera, la gran crescita estiva
e l’autunnale culmine nel rosso
e nel turgore, prima dello spegnersi
nelle brume d’inverno. In accordo con il sole,
alto o basso sull’orizzonte, ardente
o velato, furono sempre i tuoi lavori
in tutto il corso di una lunga vita.
Così i miei, nel mio giro ancor più umile:
coprivo il fuoco a sera e lo attizzavo al mattino,
mi muovevo tra le mie ciotole di legno
e inseguivo, perché non danneggiasse
il seminato, quella nostra unica
e amata ochetta. Si, proprio l’ochetta
che scappata ci rese tanto ridicoli
quando vennero gli dèi. Li rivedo, gli dèi,
disegnati anche loro sopra una trama di foglie,
fermi alla nostra porta, semplici come noi:
un vecchio padre col giovane figlio
due modesti viandanti che chiedevano
solo un boccone ed un po’ di riposo
nell’afa meridiana. Li accogliemmo
volentieri, benché per noi significasse
dare fondo le nostre magre provviste.
Non avemmo la più lontana idea
di quale fosse la loro natura
finché non ce lo dissero e allora ci fu poco
tempo per fare esclamazione o cerimonie,
perché il castigo che era stato in serbo
per i nostri vicini inospitali
già incalzava e poteva travolgere anche noi
se alla cima del Monte non avessimo subito
indirizzato i nostri deboli passi.
Come venne improvvisa la piena e come tutto
cancellò la valle! Da una vasta palude
solo la nostra casetta emergeva,
trasformata in un tempio, quando ridiscendemmo.
Entrandovi, ci parve di aver varcato un mare
ed essere approdati a un’altra sponda.
Eravamo gli stessi nello stesso luogo
dove avevamo sempre vissuto; pure, tutto appariva,
dentro e fuori di noi, irriconoscibile.
Anche la nostra vita fu diversa
da allora in poi, come fosse sospesa
tra due mondi ed intenta a prepararsi
per quello definitivo. Una luce augusta
ormai sensibilmente ci avvolgeva.
Tu più non fosti contadino, Filemone,
ma sacerdote; ed io non più massaia
ma tua compagna di sacerdozio. Gli dèi
che un giorno, ignari, avevamo nutrito,
adesso ci nutrivano. Libero da ogni affanno
il nostro tempo trascorreva in preghiera.
E sempre più sottili e trasparenti
diventavamo, sempre più staccati
dal mondo intorno a noi, c’altro non era
che è un grande deserto. Ho detto che ogni cosa
appariva per noi riconoscibile;
pure, devo correggermi: una cosa,
la più importante, non era mutata.
L’amore che da giovani ci aveva
congiunti e accompagnati nell’età,
di un nodo ancor più forte ci stringeva
su quest’ultimo istmo dell’esistere,
ormai accerchiati dalla morte. Puri
eravamo ed estatici, ma sempre
un uomo e la sua donna, necessari
l’uno all’altro, reciproco sostegno
e gioia, e il senso d’imminente fine
sempre più ci rendeva uniti. “Come
verrà?” ci chiedevamo qualche volta.
Ed a conforto dal cuore turbato
Ciascuno ricordava all’altro il premio
chiesto agli dèi, promesso dagli dèi
solennemente alla nostra pietà:
che ci cogliesse insieme l’ora estrema,
affrontarla indivisi. Un altro filo
mi legava al passato: quel mormorio di foglie.
Forse anche tu l’udivi. Non ne parlammo mai.
Non solo quando uscivo sui gradini
del tempio, presso cui un boschetto sacro
era cresciuto e stormiva alla brezza,
ma nell’interno e davanti all’altare
sentivo a tratti quella voce, come
se salisse dal fondo del mio essere,
e pensavo: “E’ la musica dei giorni
che sorgono e declinano, la tenera
musica incomprensibile, di riso
e di pianto, saggia e folle. Nel cuore
delle cose, dal quale si dirama
la sua legge, anche noi presto saremo.”
Non mi stupì quando le scarne braccia,
già somiglianti a rami, si coprirono
di verde nebbia, e il passo che muovevo
verso di te, istintivo (tutti e due
eravamo sul prato, accanto al portico del tempio)
s’arrestò a mezzo ed i piedi
come radici in terra sprofondarono.
Il tuo caso era il mio: vedevo in te
Il mio sforzo medesimo e l’evento.
Pensai un attimo a Dafne… Ma per noi
non violenza d’un dio, non scampo tragico
né gloria dell’allor. Un quieto esito
per me fu il tiglio dai dolcissimi fiori
come per te (più forte) l’alta quercia.
I tuoi occhi sereni che cercavano
l’ultima volta i miei! La bocca piena di foglie
nel dirci addio! Ma non v’è addio. La voce
delle tue fronde e delle mie continua
perennemente il dialogo. Non era
molto più articolato il mio linguaggio
quando potevo parlarti. Ed un moto
m’animava ancora come n’animava
nell’umile mia vita. Quando il vento
scompiglia e tende i nostri rami, tanto
che le mie e le tue foglie come mani si sfiorino,
nella linfa sento ancora il palpito
che m’invadeva umana al tuo appressarti –
o immensamente amato, tu per sempre
amato, mio Filèmone.
“Bauci e Filemone”, da “Il buio e lo splendore” di Margherita Guidacci, ed. Le lettere
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